Nel 1977, mentre l'Italia viveva uno dei periodi più drammatici della sua storia repubblicana, Damiano Damiani porta sul grande schermo "Io ho paura", un film che, pur inserendosi nel filone del cinema degli anni affollati, rivela le contraddizioni e le ambiguità di un genere sempre più attratto dalle dinamiche del poliziottesco commerciale
Tra denuncia e spettacolarizzazione
[Il titolo "Io ho paura" cattura efficacemente l'atmosfera del 1977, anno segnato da violenze crescenti e dalla progressiva erosione della fiducia nelle istituzioni. Tuttavia, Damiani sembra oscillare pericolosamente tra l'intento di denuncia civile e la tentazione di cavalcare il successo del poliziottesco all'italiana, genere che in quegli anni dominava i botteghini con film come "La polizia ringrazia", "Milano trema: la polizia vuole giustizia" o "Roma violenta".
La costruzione dell'intrigo, che dovrebbe svelare le trame tra servizi segreti, terrorismo nero e poteri occulti, finisce per cadere in una semplificazione manichea tipica del poliziottesco più commerciale. Le "forze del male" sono dipinte con tinte così cariche da risultare caricaturali, mentre la realtà degli anni di piombo era caratterizzata da zone grigie e ambiguità che il film non riesce a restituire. Il risultato è una narrazione che, anziché approfondire le contraddizioni del sistema, si limita a contrapporre buoni e cattivi secondo schemi consolidati.
Volonté: l'unica nota autentica
[Gian Maria Volonte nel ruolo del brigadiere Graziano
In questo contesto di crescente deriva verso il cinema d'azione, l'interpretazione di Gian Maria Volonté rappresenta l'unico elemento di autentica profondità. Il suo brigadiere Graziano, spaventato e vulnerabile, offre momenti di genuina umanità che contrastano con la retorica action del resto del film. Volonté riesce a restituire il disorientamento reale di chi, negli anni Settanta, si trovava in prima linea senza comprendere le dinamiche più ampie del conflitto sociale e politico.
La superficialità dell'analisi
Quello che doveva essere un film di denuncia sui meccanismi perversi del potere si trasforma progressivamente in un thriller convenzionale dove l'azione prevale sulla riflessione. Le sequenze di suspense e gli scontri a fuoco, pur tecnicamente ben realizzati, finiscono per soffocare qualsiasi tentativo di analisi critica. Il film scivola così nel filone del poliziottesco qualunquista che, sotto la parvenza di denunciare la corruzione, in realtà alimentava un generico anti-istituzionalismo senza offrire chiavi di lettura reali.
Volontè e Erland Josephson in una scena del film
Emblematica in questo senso è la figura del giudice Cancedda, interpretato da Erland Josephson. L'attore svedese, pur essendo un interprete di grande talento, è costretto a un ruolo monodimensionale che si limita a espressioni di stupore e frasi di circostanza. Il personaggio diventa così il simbolo di una magistratura idealizzata e stereotipata, lontana dalla complessità reale di quegli anni segnati dalle stragi e dall'isolamento dei magistrati più coraggiosi.
Un'opera minore
Se confrontato con le prove migliori di Damiani nel cinema civile - "Il giorno della civetta", "Perché si uccide un magistrato", "Confessioni di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica" - "Io ho paura" appare come un'occasione sprecata. Laddove i film precedenti riuscivano a coniugare tensione narrativa e approfondimento sociale, qui prevale una logica commerciale che sacrifica la complessità dell'analisi sull'altare dello spettacolo.
Il valore residuo
Nonostante questi evidenti limiti, "Io ho paura" mantiene un valore documentario come testimonianza dell'atmosfera del 1977. Il film cattura il clima di paura e incertezza di quegli anni, anche se lo fa attraverso le lenti deformanti del cinema di genere. Rappresenta inoltre un esempio significativo di come il cinema italiano degli anni Settanta abbia progressivamente abbandonato le ambizioni del cinema d'impegno per abbracciare formule più commerciali e rassicuranti.
"Io ho paura" è un film che tradisce le sue stesse premesse. Partito con l'ambizione di raccontare le contraddizioni dell'Italia degli anni di piombo, finisce per scivolare nel qualunquismo tipico del poliziottesco commerciale, dove la denuncia si trasforma in spettacolo e l'analisi sociale viene sacrificata in favore dell'azione. Un'occasione perduta per un regista che aveva dimostrato di saper fare molto meglio, e un esempio di come il cinema degli anni affollati abbia spesso preferito l'effetto facile alla riflessione profonda.